“Alla vigilia del grande Maxiprocesso di Palermo, Giovanni Falcone tenne una scottante “lectio” sulla mafia ad una platea di addetti ai lavori, in un albergo siciliano sul mare. In quella occasione spiegò che non era mai esistito, nel codice di Cosa Nostra, un termine come quello di “terzo livello”. I boss, affermò, non si facevano comandare da nessuna più alta e misteriosa entità. Ma quel giorno Falcone rivelò anche una novità sconvolgente: per la prima volta, disse, la mafia si era quotata in Borsa. Quando, alla fine dell’intervento, Falcone si concesse un caffè al bar dell’albergo, insieme a Paolo Borsellino, l’aria si fece elettrica. Tutti volevano saperne di più. I due giudici, sorridendo, rifiutarono ogni ulteriore commento. Ma i più avveduti avevano comunque capito che il riferimento era diretto al gruppo Ferruzzi di Raul Gardini.
Ricordate le imprese del natante “Moro di Venezia”, che appassionò l’Italia dei velisti? E poi la scalata alla Montedison, la nascita e il fallimento di Enimont? Èproprio all’ombra di questi nuovi affari che inizierà ad allungarsi sulla storia italiana l’ombra di Matteo Messina Denaro, detto “u siccu” (il magro), considerato uno dei latitanti più pericolosi al mondo. “U siccu” è il boss che ha mandato in soffitta bombe e lupare, preferendo decisamente listini e capitalizzazioni. Attenzione: l’ultimo fuggitivo del clan dei corleonesi ha effettivamente attraversato tutta la stagione terrorista a fianco di Totò Riina; è stato apertamente uno degli irriducibili comandanti dell’offensiva contro lo Stato, a suon di attentati e stragi, nel biennio ’92-’93. Ma poi è stato anche lesto a riposizionarsi, intravedendo per primo i nuovi business all’orizzonte.
Sul “secco” si è detto tutto e il contrario di tutto: è come Diabolik, non si nasconde in Sicilia, gira il mondo, guida una Aston Martin armata di mitragliatori, come 007. Si è scritto persino che non esiste: è solo un simbolo, un fantasma.
Tutte leggende. Ora Lirio Abbate, vicedirettore dell’Espresso, già autore dell’inchiesta su “Mafia Capitale”, rimette il boss con i piedi per terra, citando proprio il caso Ferruzzi-mafia, già nella prima parte del suo “U siccu, Matteo Messina Denaro: l’ultimo capo dei capi” (Rizzoli).
Affari, anzitutto grandi affari. “U siccu” ha fatto riemergere l’anima originaria di Cosa Nostra. Affari grandi e affari sporchi: per questo il ricercato numero uno, spiegano i suoi cacciatori, resta ancora oggi così pericoloso. La sua strategia non prevede più separazioni tra illegalità e istituzioni economico-finanziarie, tra politica e crimine, tra amministrazione centrale e poteri occulti. Una metamorfosi sistemica messa a punto già durante la lunga parentesi successiva alle stragi, quando dopo la cattura di Riina (gennaio 1993) Bernardo Provenzano ha governato Cosa Nostra siciliana di nuovo nell’ombra e nel silenzio, fino al suo arresto del 2006. Da quel giorno “u siccu” – ormai affrancato da ogni padrinaggio – ha proceduto da solo. Abilissimo e imprendibile.
Chi è davvero Matteo Messina Denaro? Anzitutto, racconta Lirio Abbate, è la pietra di paragone della storia italiana. Se leggiamo attentamente le sue gesta, scopriamo che squadernano le nostre abituali ricostruzioni sul crollo della Prima Repubblica. Abbate mette in rilievo un dato, che si registra tra l’86 e l’87, gli anni del Maxiprocesso: la mafia fa confluire i suoi voti nelle liste elettorali dei socialisti e dei radicali di Pannella, non sentendosi più protetta da quei settori della Democrazia cristiana con cui era più abituata a “trattare”. A conferma, il 31 gennaio del 1992, la Cassazione mette il bollo definitivo alle condanne del Maxiprocesso. Cosa Nostra si sente definitivamente scaricata dai vecchi protettori. E si vendica. Vengono uccisi il potente esattore Ignazio Salvo e l’eurodeputato andreottiano Salvo Lima. E intanto, il 17 febbraio del 1992, scoppia a Milano l’inchiesta Mani Pulite.
Ma che relazione c’è tra le due cose? Nel gennaio del 2020, ricorda ancora Abbate,in una clamorosa intervista a “L’Espresso”, l’ex pubblico ministero di Mani Pulite Antonio Di Pietro dice a Susanna Turco: «Mani Pulite è una storia che andrebbe riscritta. Mani Pulite non l’ho scoperta io: nasce dall’esito dell’inchiesta del Maxiprocesso di Palermo, quando Falcone riceve riservatamente dal pentito Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia… Raul Gardini non si suicida così, per disperazione, il 23 luglio del 1993: si suicida perché sa che quella mattina, venendo da me, doveva fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire».
Michele Sindona, Roberto Calvi, Raul Gardini, tre casi clamorosi di alta finanza internazionale finiti poi in odor di mafia. È questo lo spessore vero dell’ultimo latitante siciliano. Quando il 20 settembre del 2013 arriva la notizia della confisca di tre milioni e mezzo di euro al re dell’energia alternativa Vito Nicastri, che ha impiantato nel trapanese centinaia di pale eoliche, imprenditore considerato vicino a Matteo Messina Denaro, si capisce che “u siccu” sta battendo quelle piste, che per lui non sono nuove. Già il 16 settembre del 1992, a pochi mesi dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, in uno studio legale romano, era stato stretto un accordo tra algerini e maltesi per la costruzione di un complesso turistico da 1800 miliardi di lire. L’operazione, coordinata dai clan, serviva a riciclare il denaro del “secco”. Il grande latitante, nativo di Castelvetrano, figlio del boss Francesco, vera aristocrazia mafiosa, è stato un manager d’affari sin dalle origini. Bombe, stragi, guerre, solo quando occorre. Poi soprattutto “piccioli”. Quelli occorrono sempre.