Mafia, chieste condanne a 10 anni per tre esponenti della locale famiglia

operazione-withnes-carabinieri-marsalaDieci anni di carcere a testa sono stati invocati dal pm della Dda Carlo Marzella per i tre imputati del processo scaturito dall’operazione anti mafia dei carabinieri di Marsala «The Witness» (9 marzo 2015). Alla sbarra, in tribunale (presidente Sergio Gulotta), sono Antonino Bonafede, di 80 anni, pastore e vecchio “uomo d’onore”, Martino Pipitone, di 66, ex impiegato di banca in pensione, entrambi in passato già arrestati per mafia, e il 54enne pastore incensurato Vincenzo Giappone. L’accusa è associazione mafiosa. Dei tre, solo Pipitone – accusato anche di intestazione fittizia di una società ad altra persona “per evitare eventuale confisca da parte dello Stato” – è tornato in libertà. Per lui, il pm ha invocato anche l’interdizione dai pubblici uffici e tre anni di libertà vigilata dopo aver scontato la pena detentiva.

Le indagini, dirette dal Procuratore Aggiunto della D.D.A. di Palermo, D.ssa Teresa Principato, e coordinate dal sostituto procuratore Carlo Marzella, hanno accertato l’attuale vitalità e operatività della famiglia mafiosa marsalese, documentando il ruolo di vertice di Antonino Bonafede, storico uomo d’onore lilibetano che avrebbe preso il posto del figlio, Natale Bonafede, in carcere dal gennaio 2003 con una condanna definitiva all’ergastolo. All’anziano nuovo presunto “reggente”, lo scorso gennaio sono stati confiscati beni per oltre 4 milioni di euro.  Bonafede, unitamente a Vincenzo Giappone, provvedeva alla raccolta delle somme di denaro provento delle attività illecite, poi conferite al “mandamento mafioso” di Mazara del Vallo e ai familiari degli affiliati detenuti, come ad esempio Giacomo Amato, uomo d’onore marsalese condannato all’ergastolo.

Inoltre l’attività d’indagine ha permesso di: attribuire a Antonino Bonafede il ruolo di “reggente” della “famiglia mafiosa” di Marsala; individuare in Vincenzo Giappone il “cassiere” della famiglia mafiosa e primo collaboratore di Bonafede; riattualizzare il ruolo di Martino Pipitone, anziano esponente di rilievo della consorteria mafiosa marsalese, il quale esercitava la propria sfera d’influenza principalmente nel centro storico della città; accertare la fittizia intestazione, posta in essere da Martino Pipitone.

I militari dell’Arma, con l’impiego delle classiche metodologie investigative, ma anche con i più moderni mezzi tecnologici, sono riusciti ripetutamente a monitorare il passaggio del denaro tra gli affiliati, che era solitamente contenuto in buste di carta e indicato dagli stessi con l’eloquente appellativo di malloppo. La famiglia mafiosa marsalese, al fine di mantenere il controllo del territorio di competenza, si interessava fattivamente al recupero di refurtiva sottratta a persone vicine al sodalizio criminale, a dirimere controversie tra gli agricoltori e i pastori della zona e contrastare l’apertura di nuove attività commerciali che avrebbero potuto incidere negativamente con quelle riconducibili a personaggi protetti dagli affiliati. A tal fine programmavano l’esecuzione di atti intimidatori e danneggiamenti qualora la vittima designata non si fosse convinta.

Le arringhe dei difensori (avvocati Paolo Paladino, Stefano Pellegrino, Stefano Venuti e Vito Cimiotta) inizieranno il 20 aprile.

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