Il caso Saguto e l’antimafia delle apparenze

Saguto-SilvanaMafia o antimafia, questo è il dilemma! Siamo ormai tristemente abituati a storie di mazzette che hanno come protagonisti politici, amministratori locali, burocrati o imprenditori, basta considerare i tanti casi che hanno relegato l’Italia all’ultimo posto tra i Paesi dell’Eurozona nella classifica 2014 di Transparency International sulla corruzione percepita. Sorprende e colpisce, invece, se al centro dell’ennesimo scandalo c’è un magistrato, come nella squallida e gravissima vicenda che vede coinvolta l’ormai ex presidente della Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, sotto inchiesta per corruzione, induzione e abuso d’ufficio per la gestione dei beni confiscati alla mafia. Con lei sono indagate altre cinque persone: tre colleghi dell’ufficio, l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, titolare di uno studio cui è affidata la gestione di diverse aziende confiscate, e il marito del giudice, l’ingegnere Lorenzo Caramma.

Da quello che è emerso finora, da quello che è stato possibile leggere, sembra ci sia davvero tutto il peggio del repertorio corruttivo in questa bruttissima storia: le immancabili tangenti, l’assegnazione ad amici e parenti di incarichi di gestione dei patrimoni confiscati, la spesa gratis al supermercato sequestrato, la scorta usata per fare la spesa e pure gli insulti contro i figli di Paolo Borsellino, Manfredi e Lucia. Insomma, quello che doveva essere un luogo simbolo di trasparenza e legalità era invece profondamente inquinato, a desolante dimostrazione di come in Italia la corruzione sia diventata così sistemica da arrivare dappertutto, persino in quelli che dovrebbero essere i santuari dell’antimafia.
Da nord a sud, senza differenza di latitudine, il saccheggio del denaro pubblico è ormai la regola e non l’eccezione. Lo dicono Mafia Capitale, gli arresti all’Anas, lo scandalo Mose, le tangenti all’Expo e tutti gli altri casi magari non assurti agli onori delle cronache ma comunque non meno inquietanti. Nel caso beni confiscati la novità è che al centro dello scandalo c’è un magistrato, con gravi indizi a carico. E un’osservazione va subito fatta: a differenza di quanto accade generalmente con la politica, sempre pronta ad autoassolversi, a trincerarsi dietro l’immunità, a garantirsi l’impunità, la magistratura ha fatto fino in fondo il proprio dovere anche quando si è trattato di indagare su una collega, procedendo senza sconti, com’era giusto e doveroso che facesse.

Detto questo, però, è anche vero che qualcosa non ha evidentemente funzionato nel sistema di controllo. Se gli indagati hanno potuto continuare chissà per quanto tempo a fare quello che la procura di Caltanissetta gli contesta è perché all’interno di certi ambienti della magistratura sono mancati controlli efficienti. Dov’erano il Csm o l’Anm, sempre pronti a puntare il dito contro pm ritenuti scomodi, come è successo con me e con Nino Di Matteo, ma tanto colpevolmente distratti da non accorgersi di quello che succedeva a Palermo?

Il caso Saguto impone poi un’altra riflessione ed è quella riguardante l’aura di impunità che ha circondato a lungo, e talvolta circonda ancora, alcune figure di quell’antimafia opportunista, conformista, in cui hanno cercato di camuffarsi, spesso riuscendoci, impostori, disonesti e perfino complici della mafia. Mentre c’era chi combatteva cosa nostra, sacrificando anche la propria vita, c’era chi faceva finta di combattere, pensando solo al proprio tornaconto personale. E però sarebbe un errore grave cavalcare l’ultimo scandalo per ridurre tutta l’antimafia a questa antimafia finta, delle apparenze, per delegittimare anche l’impegno di chi l’antimafia la fa per davvero, in prima linea, ed è un’antimafia di sostanza, intransigente. C’è una differenza enorme tra l’antimafia delle apparenze della Saguto, che va smascherata e denunciata, e l’antimafia di sostanza di un Nino Di Matteo, che va invece difesa e sostenuta. Chi nega questo vuole solo alimentare quel revisionismo che punta a gettare a mare tutta l’antimafia in una generalizzazione sbagliata, immotivata, pericolosa. Quello che occorre è semmai un’assoluta intransigenza e una maggiore rapidità nell’accertare e reprimere le aree di corruzione, rafforzando alcuni strumenti (per esempio il sequestro e la confisca dei beni anche dei corrotti, come chiedo da tempo con la proposta di legge scritta insieme a Franco La Torre). Va poi evidentemente ripensato il sistema di gestione dei beni sequestrati alle cosche, dal momento che quello attuale si è rivelato chiaramente inadeguato in quanto troppo affidato alla discrezionalità di magistrati e amministratori giudiziari, col rischio di trasformarsi, come a Palermo, in un ennesimo strumento di potere per distribuire favori e prebende. Insomma, serve una rivoluzione. Una rivoluzione innanzitutto culturale ma anche di strategia, che valorizzi le vere risorse e smascheri gli impostori. Solo così si potrà restituire fiducia alla comunità degli onesti, sempre più depredata e tradita, e perciò sfiduciata e chiusa in se stessa.

di Antonio Ingroia

fonte: http://www.antimafiaduemila.com/

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