Il falso problema dell’olio dalla Tunisia

tunisia-frantoio-olio-tunisino-sul-mercato-europeoLa sceneggiata sull’olio tunisino non accenna a placarsi. Un grande spreco di accenti catastrofici sulle conseguenze dell’annunciata massiccia importazione di olio dal paese nordafricano impazza sui media, quasi al pari di notizie di ben altra rilevanza per la nostra economia, ma senza che nessuno affronti la questione nei giusti termini. Soltanto il ministro dell’agricoltura, nella solita baraonda determinata dalla sovrapposizione degli interventi, alcune sere fa a ‘Ballarò’ si è lasciato sfuggire una mezza verità sull’argomento. Seguito a ruota ieri, venerdì, da qualcuno degli invitati a La 7.

Dicono, in sintesi, l’uno e quelli più sensati fra gli altri: l’Italia non produce abbastanza olio per i propri fabbisogni, dunque ne deve importare. La tesi non fa una grinza, monsieur de La Palice non sarebbe stato così ineccepibile. E, quindi, non si capisce di che cosa si stia parlando in Italia, oppure, da campioni del raggiro, cosa vogliono farci intendere con l’accensione della miccia i pupari mediatici insaziabilmente proni agli acquirenti della loro pubblicità.

C’è da chiedersi: A chi giova tutto il chiasso in atto? Dal momento che il quantitativo di olio supplementare che importiamo dalla Tunisia andrà a detrimento di quello che normalmente ci forniscono gli altri paesi, non dovremmo di certo essere noi a lamentarci. Il problema, semmai, riguarderà Spagnoli, Greci, Turchi e tutti quelli che esportano il surplus del loro olio, i quali subiranno un calo dei quantitativi abitualmente destinati all’Europa, e al nostro paese in particolare, per effetto del via libera alla massiccia importazione. Sia per soddisfare le esigenze comunitarie, come anche quelle della grande industria di confezionamento e distribuzione nel mondo intero.

Sia pure, in quest’ultimo caso, con l’equivoca etichettatura che, ammantata dei prestigiosi nomi dei marchi (non più) italiani e della comprensibilità decisamente nulla circa la provenienza, induce il consumatore poco attento a credere di mettere nel carrello un prodotto italiano ad un prezzo più che accattivante. E allora, dove sta il problema?

Quello c’è ed è molto serio, anzi gravissimo! I nostri responsabili istituzionali lo sanno, ma preferiscono argomentare sui falsi problemi, evitando accuratamente di toccare i tasti poco graditi ai mammasantissima dell’industria alimentare ben ammanicati in quel di Bruxelles.

Si tratta proprio dell’etichettatura: “Extravergine d’Oliva”, denominazione della quale si sono appropriati cani e gatti, meglio: pidocchi e sanguisughe, con serio nocumento del nostro rinomato olio.

Della gamma di oli, “Olio Vergine d’Oliva”, “Olio d’Oliva”, “Olio di Sansa e d’Oliva” non se ne trova nei supermercati neanche a cercare con la candela: tutti si fregiano dell’altisonante “Extravergine”, Dio solo sa in virtù di che cosa, fatti salvi i valori di acido oleico generalmente rispettosi dei parametri grazie agli artifici che vedremo. Di tutto il resto, delle caratteristiche proprie ed esclusive dell’olio Extravergine non se ne parla proprio. O, per meglio dire, se ne parla ma a vanvera.

Ma noi – che tanto ingenui non siamo – proviamo ad immaginare qualcosa d’altro. Quel qualcosa avverso ai responsabili, di cui dicevamo dianzi, che fanno orecchi da mercanti.

Supponiamo, giusto per dire, che tutti questi oli importati che tanto angosciano, e giustamente, quei produttori vessilliferi dell’autentico Made in Italy, siano in origine dei volgarissimi oli lampanti non commestibili, del valore di pochi centesimi per litro, che una volta sottoposti in situ a deodorazione, decolorazione, rettificazione e deacidificazione … diventano extravergini pronti a prendere la via del mare verso l’Italia, con documenti che ne certificano l’ extraverginità, per proseguire, impupati a dovere, verso le catene distributive dove a prezzi stracciati lo appioppano al consumatore ignaro degli espedienti messi in atto. E ancor di più ignaro di acquistare a prezzi in verità altissimi quel che vale zero in termini di valori nutrizionali.

In conclusione: deve essere chiaro, una volta per tutte, che non è l’olio importato che arreca pregiudizio alla nostra economia agricola. È la falsa attestazione qualitativa che bisogna a tutti i costi impedire; è quel suo appellativo “Extravergine”, improprio ed abusivo, che rende improponibile il prezzo dei nostri grandi oli, i cui costi di produzione non hanno nulla a che vedere con l’olio estratto da olive super ammuffite.

E con ciò non voglio dire che fuori d’ Italia non si produca dell’ottimo olio, ma non è quello che troviamo a quattro soldi negli scaffali della grande distribuzione. Lo troviamo, invece, nelle grandi vetrine del mondo a prezzi persino più alti del nostro migliore italiano.

Non basta, quindi, aver messo la toppa della tracciabilità del Made in Italy. È troppo poco, finché l’eccellenza qualitativa dovrà confondersi, grazie alla medesima indicazione di extravergine, con prodotti arbitrariamente pretenziosi.

Va comunque impedito severamente di etichettare come “Extravergine” quell’olio che non lo è mai stato. Dopodiché si importi tutto l’olio che serve, perché, detto con franchezza, e a parte il fatto che di olio tunisino non è mai morto nessuno, la gran massa dei consumatori non può permettersi gli oli a caro prezzo. Anche in considerazione del fatto che da noi c’è l’abitudine di abbondare con questo condimento.

Guerra, dunque, alle false attestazioni, e alla sofisticazione, per aprire le porte dei mercati esigenti all’olio di qualità. Ce n’è tanto poco da non doversi permettere che qualcuno ne abbia quantitativi invenduti, un poco per l’incapacità di accedere ai mercati esteri, ma principalmente perché il consumatore italiano è deliberatamente mantenuto nell’ignoranza più totale delle differenze, stante il fatto che tutti gli oli in commercio sono etichettati “Extravergine”.

L’altra soluzione è quella di consentire ai buoni e onesti produttori di cambiare la denominazione del proprio prodotto con una formulazione dell’etichetta diversa da quella attuale.

Con buona pace delle direttive capestro europee, notoriamente attentissime a privilegiare gli interessi delle multinazionali piuttosto che quelli di categoria.

Gianfranco Becchina

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