Cuffaro torna in libertà: “Mai più politica”. L’ex presidente diffonde una lettera aperta
Torna in libertà l’ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro dopo essere stato in carcere per 4 anni e 11 mesi. Cuffaro è appena uscito dal carcere di Rebibbia a Roma. “E’ bello respirare la libertà. Oggi posso dire di aver superato il carcere. – queste le prime parole dell’ex governatore – La mafia è una cosa che fa schifo. Lo continuo a dire anche perché quando l’ho detto qualcuno ci ha riso sopra, ma la mafia fa schifo. Ed é il più grande cancro che abbiamo in Sicilia”, ha poi detto Cuffaro in una intervista a Tv2000. “Un cancro complicato – ha aggiunto – Perché è un cancro metastatizzato, nel senso che si insidia e arriva dappertutto dove ci sia da lucrare, da fare soldi, da fare economia. Ed è soprattutto un fenomeno che aggredisce le persone meno attrezzate culturalmente”.
Cuffaro, condannato a sette anni per favoreggiamento aggravato alla mafia, è stato in carcere meno di cinque anni: 4 anni e 11 mesi. Ora che ha chiuso i conti con la giustizia, grazie all’indulto di un anno per i reati “non ostativi” e lo sconto di 45 giorni ogni sei mesi per buona condotta, torna uomo libero. Per lui è la fine di un incubo (gli amici lo chiamano “calvario”) che vuole vivere in una dimensione privata.
“La politica attiva, elettorale e dei partiti – ha detto Cuffaro – è un ricordo bellissimo che non farà parte della mia nuova vita. Ora ho altre priorità. Ho amato la politica e non rinnego nulla di ciò che ho fatto – ha aggiunto – non mi sento tradito. Nella mia coscienza – ha detto ancora Cuffaro – sono innocente. Sono andato a sbattere contro la mafia.Tornassi indietro metterei un airbag. Ho fatto degli errori, non mi voglio nascondere – aggiunge – io li ho pagati, altri no. Ora credo di avere il diritto di ricominciare”
Cuffaro non è uscito dall’ingresso principale del carcere di Rebibbia ma da quello dell’Aula Bunker in via del Casale di San Basilio. L’ex governatore della Sicilia aveva con sé degli scatoloni che contenevano lettere ricevute durante il suo periodo di detenzione. “Ho ricevuto 14 mila lettere – spiega – sono parte della mia vita. Le terrò con me”. Ad aspettarlo fuori dal carcere il figlio e il fratello Silvio (fonte: Ansa © Copyright ANSA).
La lettera aperta di Totò Cuffaro dopo la scarcerazione
“Sono passati 1780 giorni da quando la mattina del 22 Gennaio del 2011 ho intrapreso la strada chiusa, non ho imprecato contro alcuno, non mi sono appellato alla sorte. Ho portato con me il mio fardello, i miei sentimenti e la mia vita. Sono rimasto in carcere per un tempo infinito ma non per sempre e per tenermi vivo ho letto, studiato, pregato, ed ho scritto del luogo chiuso e dell’inumano domicilio per essere utile a chi è rimasto.
Con lo scrivere ho alleviato la mia avversa sorte e via via sempre più mi immergevo nel viaggio del luogo del mistero. Ho incontrato il luogo malvagio e sono sopravvissuto, lo stesso luogo dove altri muoiono. Non è ciò che sta dentro che lo rende cattivo, è il carcere di per se che è cattivo. Dentro ci sono ladri, rapinatori, omicidi, usurai, corrotti, mafiosi, trafficanti di uomini e di droghe, bancarottieri, ma sono sempre uomini. Il carcere invece è inumano. Ogni sguardo vivifica e ricomincia quando incontra la Misericordia. Sia esso uno sguardo di giudici, di detenuti, di re o mendicanti. La Misericordia è al di sopra di ogni sovranità e di ogni potere, di ogni inferiorità e di ogni soggezione. Nessun uomo è scevro dal commettere errori; se esistesse un tale uomo avrebbe il diritto di pretendere dagli altri di non sbagliare, ma non può avere tale diritto perché non esiste.
Adesso sento forte dentro di me un voce che mi dice: l’essere sopravvissuto non è una colpa, tornare a vivere non è una colpa, è una colpa dimenticare quello che si è vissuto, è una colpa più grande dimenticare quelli che ancora vivono il luogo malvagio e quelli che il luogo ha ucciso. Come se volesse dirmi e ricordarmi che ho un dovere da compiere: non dimenticare e impegnarmi a che il luogo malvagio non uccida ancora, materialmente o spiritualmente.
Non voglio scordare gli anni del carcere, le persone che mi sono passate accanto, quelle che vi sono rimaste. Serbo nel cuore il ricordo di tutti, non lo voglio scordare, non voglio scordare questa parte di vita. Non voglio scordare le molte sofferenze, le lacrime versate e quelle trattenute, il bruciore della mente, l’angoscia, gli assalti della disperazione. Non voglio scordare, se lo facessi sarei un vile, ad aiutarmi a ricordare ci sono i graffi che hanno segnato per sempre il mio animo. Mi impegnerò perché possano migliorare le condizioni di vita dei detenuti, vivendo in cella ho imparato quanto sia importante non sentirsi esclusi e non essere dimenticati dalla società.
Nella mia disgrazia ho mantenuto la convinzione e la sensibilità che la purezza dell’anima si conquista non solo pensando ma anche operando nel bene, afferrando il destino e maturando l’esistenza come essenza della vita, nel senso della propria costanza e della coscienza di se. La vita conduce a riflessioni su ciò che in essa è contenuto, su ciò che contiene, e su ciò che si vorrebbe contenesse. Riflettere fa sorgere dubbi e, se si vuole veramente che i valori della vita si affermino sui dubbi, è necessario essere sinceri con se stessi e dare al pensiero lo spazio del sapere, della verità, della fede e della Misericordia.
Ho lottato a petto in fuori e a mani nude contro i duri e spietati fortilizi del carcere che mi hanno assaltato e per non soccombere ho brandito le armi del pensiero, dello scrivere, del rispetto delle istituzioni, della fiducia nella giustizia, dell’amore, della speranza e della fede. Non mi sono mai perso d’animo e giorno dopo giorno, per 1780 giorni, ho capito che il carcere andava cedendo alle mie resistenze, alla mia voglia di farcela, sino a vederlo diventare inquieto e confuso e persino meno cattivo e persino fecondo. La sua vocazione ad escludere, a vietare, a soggiogare, la sua indole inumana, e soprattutto l’umanità che invece lo vive, hanno finito per nutrire le mie speranze: così ho vinto.
A mia moglie, ai miei figli e a mia madre, non ho mai raccontato del mio dolore nel carcere, dell’abisso in cui sono stato per 5 anni, ho detto solo dell’amore e della speranza e di come e dove l’abbia trovata; se avessi detto la cruda verità avrebbero sofferto ancora di più del già tanto che hanno sofferto. In carcere ho sviluppato la facoltà che ogni uomo ha a vivere insieme a se stesso, a dialogare con se stesso, a pensare. Il pensiero è diventato il mio dialogo senza suoni, della mia anima con se stessa, ed in questo dialogo ritrovato ho potuto mantenere e difendere il mio essere uomo. L’umanità e la dignità di essere persona, ancorché detenuta, ha trovato nel dialogo silente con me stesso la sua capacità di alimentarsi. Pensando ho potuto sviluppare la capacità di vivere questa drammatica e avversa esperienza in modo razionale, senza essere travolto da emozioni e paure anzi valorizzandole.
La paura bussava nel mio animo, il coraggio apriva e la paura non c’era. E molto preoccupante e cattivo quello che stanno facendo i terroristi, ma è triste confondere, non so quanto in buona fede e quanto in mala fede, i terroristi con gli islamici. Secondo il governo, le carceri sarebbero luoghi da tenere in particolare attenzione perché a rischio alto di proselitismo. A me, che ho vissuto il carcere per 5 anni pare invece che sia più alto il rischio di una azione discriminatoria verso gli islamici che il loro rischio di proselitismo. Ho pregato insieme col mio compagno di cella Jalal e guardavo i gabbiani, simboli di libertà volare dentro le mura del carcere che invece imprigiona la libertà.
La fede è libera non può essere imprigionata e non deve essere strumentalizzata, neanche se appartiene a un detenuto, sia esso cristiano o di fede islamica, sia che creda in Cristo sia che creda in Allah. Ho continuato a pregare insieme al mio buon amico e compagno Jalal, abbiamo pregato con la stessa intensità e con le stesse intenzioni per le vittime del terrorismo e abbiamo pregato nelle stesso modo. Di diverso soltanto il mio sguardo rivolto al cielo dove c’erano i gabbiani e quello di Jalal rivolto verso il muro della cella in direzione La Mecca. Pensando sono riuscito a camminare e attraversare un terreno scivoloso, impervio, insidioso, terribile, senza cadere. Mi sono impegnato a dare un pensiero alto alla mia sconfitta e non a farmi abbassare da essa. Mi sono impegnato ad accantonare la disperazione, il risentimento, e solo dopo averli vinti ho potuto ben guardare la realtà, affrontarla, viverla, superarla.
Adesso so quello che voglio: voglio che la luce non si spenga mai più. Sulla politica ho già detto che non voglio dare giudizi, dico solo mi pare che chi sta governando “Etiam periere ruinae” e che questa non è la politica che conosco, la cattiveria è sempre più protagonista e c’è molta più ipocrisia. Non credo abbia meno cose da nascondere, ha solo cambiato nascondiglio e ha inventato nuovi metodi per nascondere. Dico che sono preoccupato per la nostra Terra. La mia Sicilia dove finzione e realtà si confondono sino a fondersi, che mi ha dispensato gioie e dolori, che mi ha fatto innamorare, che donandomi la vita mi ha incamminato verso la morte. Terra che non potrò mai smettere di amare.
Porto nel mio cuore il dolore e il rimorso di non essere riuscito a salutarmi con papà prima della sua ascesa al cielo. Lui che non riusciva a congedarsi senza prima offrire il suo saluto e la sua gentilezza neppure con chi veniva a notificare i miei atti giudiziari. Sono sicuro mi ha perdonato, l’amore di un padre perdona tutto. Sento il bisogno di tornare nella casa paterna, nella strada che mi vide bambino, in questi anni il mio pensiero vi è tornato spesso. Seppur siano passati tanti anni sono segnato dalla loro forza indelebile, dal loro desiderio. Mia madre, che non mi hanno fatto riabbracciare, mi aspetta. Quando il giudice è terzo costituisce la garanzia della libertà e la tutela dell’uomo e non rende schiavo né il dovere né il diritto e fortifica in ognuno di noi l’idea di giustizia. L’ingiustizia è una pericolosa malattia del nostro sistema giudiziario e credo purtroppo non sarà facile trovarne le cure.
Ci resta la libertà di accettare la nostra situazione e di dolercene, di non mollare. Il giorno prima di uscire dal carcere i miei compagni detenuti hanno fatto una semplice festa di saluto. Italiani, europei, extracomunitari, cristiani, islamici, senza dio, forzuti, emaciati, tatuati, teste rasate, con fine pena a termine, “fine pena mai”, giovani, vecchi, ma tutti pur sempre uomini. Hanno voluto salutarmi a modo loro, hanno cantato HURRICANE di Bob Dylan. L’ultima parte l’hanno cantata abbracciandomi. Mi sono commosso come non mai. E’ impossibile descrivere quello che ho provato quando ho messo piede fuori dalla prigione, ho avuto una irresistibile voglia di urlare.
Mai avevo provato una sensazione così intensa e forte, così mia di libertà, una gioia immensa di possesso di una nuova libertà. Credo di avere capito solo in quel momento il vero significato della libertà, in quel momento ho sentito forte il valore e il senso di essere un uomo libero. Ho avuto voglia di piangere insieme alla gioia sfrenata ed ho avvertito dentro di me con chiarezza la conferma che era un gran bene riconquistare la libertà e tornare insieme ai miei affetti e alla mia vita. La vita si alimenta vivendola e la si da valore donandola. Posso dire di avercela fatta a superare il carcere.
Non è stato facile e non era scontato che ci riuscissi mantenendo sana la mente e integro il cuore. Il carcere mi ha tolto tante cose e mi sono mancate, ma non mi ha tolto l’amore della mia famiglia, ne ho avuto e ne ho dato tanto ed amo sempre di più la mia Sicilia e il nostro Paese. Per vincere il carcere mi sono stati utili il senso delle istituzioni, il rispetto per la giustizia, e soprattutto la fede.
In questa vittoria c’è il contributo di affetto e di amicizia delle tante persone che mi vogliono bene e che non mi hanno lasciato solo. Molte persone comuni mi hanno voluto bene e me ne vogliono e credendo nella mia buona fede mi hanno difeso. Pochi politici, pochi rappresentati pubblici e poca stampa mi hanno difeso, la gran parte, seppur credendo che io non abbia mai favorito la mafia anzi la abbia avversata, non lo hanno fatto, potevano farlo e avrebbero dovuto ma hanno avuto paura di essere catalogati… additati. Li capisco e li giustifico ma io non mi sarei comportato così.
Oggi è un bel giorno, il primo di una nuova vita, sento che la sua luce squarcia le tenebre di 5 lunghi anni. E’ bello respirare la libertà ma non voglio scordare. Ho detto quello che mi sentivo di dire, sono contento per essere tornato libero ma sono molto provato, adesso ho bisogno di stare con la mia famiglia e di dedicarmi alle mie cose”.
Fonte: www.livesicilia