Cinque arresti per mafia tra Castellammare ed Alcamo. In manette uno dei fidatissimi di Matteo Messina Denaro
I carabinieri del Comando provinciale di Trapani e del Ros hanno eseguito la scorso notte una retata contro esponenti della mafia che operavano tra Alcamo e Castellammare del Golfo. Alla retata, scaturita nell’ambito del quadro delle attività investigative finalizzate alla ricerca di Matteo Messina Denaro ed al depotenziamento del sistema economico-imprenditoriale riconducibile a Cosa Nostra nel trapanese, hanno preso parte oltre 100 militari della compagnia di Alcamo e del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Trapani.
Alle prime luci dell’alba, hanno messo le manette ai polsi a Mariano Saracino, 69 anni, ritenuto il capo della famiglia mafiosa di Castellammare del Golfo e ad altri quattro affiliati, Vincenzo Artale di 64 anni, Martino Badalucco di 35 anni, Vito Badalucco 60 anni, e Vito Turriciano 70 anni. Tutti sono accusati a vario titolo di associazione a delinquere di tipo mafioso, estorsione aggravata, intestazione fittizia aggravata, furto e violazione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno. Sono cinque gli arresti eseguiti in contemporanea al sequestro di una società di distribuzione petroli, la ‘Sp carburanti’: tra gli arrestati figura anche un imprenditore antiracket, Vincenzo Artale.
Personaggio di spicco a ritornare in manette, è il castellammarese Mariano Saracino, 69 anni, già noto alla cronaca giudiziaria antimafia della provincia di Trapani, che scontata una recente condanna a 10 anni. Tornato libero, avrebbe fatto carriera dentro Cosa nostra: una scalata che sarebbe stata favorita dalla sua presunta vicinanza al massimo vertice della mafia trapanese, rappresentato dal superlatitante Matteo Messina Denaro.
Saracino, condannato per essere stato il “cassiere” della cosca di Castellammare prima e il “ministro delle Finanze” della cupola provinciale guidata da Messina Denaro, per la sua abilità ad occuparsi di appalti e finanziamenti pubblici, in questa nuova indagine, denominata “Cemento del Golfo”, è ritenuto dagli investigatori dell’Arma il capo delle “famiglie” di Castellammare del Golfo. Nonostante la confisca di un patrimonio da 45 milioni di euro, Saracino non si è ritrovato impoverito e si è gettato sempre più nel mercato delle forniture di inerti e cemento. L’uomo negli ultimi anni sarebbe riuscito a monopolizzare le forniture di cemento e i carabinieri hanno scoperto dalla sua parte anche un imprenditore associato all’antiracket di Alcamo e Castellammare come Artale, 64 anni.
Saracino avrebbe imposto in cantieri pubblici, come quelli per i lavori al cimitero di Castellammare o la manutenzione di un tratto stradale dell’Anas in territorio di Alcamo, ma anche in cantieri privati, la fornitura di cemento che arrivava dall’impresa di Artale. Quest’ultimo così si è ritrovato a vincere facile nella concorrenza nei confronti di altre imprese, anche quelle che si ritenevano ‘intoccabili’ perché sotto la protezione di altri “padrini”. Artale per diverso tempo è stato protagonista di un braccio di ferro con la prefettura di Trapani per ottenere risarcimento come vittima della mafia, intanto però avrebbe intessuto buoni rapporti proprio con l’organizzazione mafiosa che diceva di combattere.
L’ordinanza firmata dal gip del Tribunale di Palermo Nicola Aiello, su richiesta della Dda del capoluogo, fa ampio riferimento al contenuto di moltissime intercettazioni telefoniche e ambientali: alcuni imprenditori vessati hanno anche deciso di collaborare, raccontando degli incontri con Saracino o con suoi emissari. L’ordinanza ha previsto anche il sequestro, sempre a Castellammare del Golfo, di un’azienda di vendita carburanti, la Sp Carburanti srl, intestata ad una coppia prestanome di Saracino. Un impianto che avrebbe avuto come specialità la vendita abusiva di carburante agricolo.
Dai convegni al carcere Artale e l’antimafia di facciata. Il rappresentante dell’impresa a cui erano andati a chiedere la messa a posto non sapeva a chi rivolgersi. Cercava qualcuno che lo accompagnasse dai poliziotti. E così chiese aiuto all’imprenditore Vincenzo Artale. Si fidava di lui che gli aveva raccontato della sua scelta antiracket, ricostruita pure sui giornali e agli atti di convegni e incontri pubblici. Artale gli disse che lo avrebbe messo in contatto con i carabinieri di Alcamo. Nulla di ciò avvenne.
Non poteva avvenire, secondo l’accusa, visto che Artale si sarebbe messo in affari con i boss di Castellammare del Golfo e stamani è finito in cella con l’accusa di estorsione. Qualche anno fa, nel 2006, aveva denunciato i pesci piccoli del clan che erano andati a chiedergli il pizzo per poi diventare, sostengono i carabinieri, l’imprenditore di riferimento per il nuovo capomafia, Mariano Sparacino, uno che in carcere c’è tornato dopo esserci già finito nel 2000.
Non c’era cantiere dove Artale non fornisse il calcestruzzo prodotto dalla sua impresa, la Inca. Tra questi c’era quello per la frana che aveva invaso un viadotto della Palermo-Mazara del Vallo, appaltato dall’Anas a un’impresa del Messinese.
“Deve dire alla sua azienda che deve bussare quando arriva in un posto”: quando il rappresentante dell’impresa si sentì rivolgere queste parole cercò aiuto da Artale, che riforniva di cemento il cantiere ed aveva fama di uomo con la schiena dritta, nominato pure nel collegio dei probiviri dell’associazione antiracket di Alcamo. “Un’operazione di facciata per fare affari”, dicono ora i carabinieri di Trapani, coordinati dal comandante provinciale Stefano Russo e dal procuratore aggiunto della Dda di Palermo, Teresa Principato.
Artale a partire dal 2013 avrebbe preso il posto di fornitore ufficiale del clan al posto di Antonio Craparotta di Segesta. Le cose con quest’ultimo erano andate bene fino a quando aveva accettato il tariffario di Cosa nostra che prevedeva un pizzo da due euro per ogni metro cubo di calcestruzo fornito. “Viene a Castellammare è giusto che fai quello che devio fare altrimenti dici Vito, Marti… io a Catellammare non ci possono venire più. Punto… lei poteva venire a lavorare qui quando cazzo voleva e invece per principio… di 3000 mila euro vossia ci ha perso si lavorare”.
E così gli sarebbe subentrato Artale. Di lui parlano una serie di imprenditori che hanno denunciato di avere subito le angherie mafiose. Compresi alcuni che avevano condiviso il percorso antiracket con Artale. Era chiaro a tutti che ci fossero interessi fra Artale e il duo Saracino-Balducco. Gli altri fornitori dovevano farsi da parte. Così lo racconta un imprenditore: “Non posso dirvi le reali ragioni che mi hanno portato a cambiare fornitore, mi dovere capire non mi voglio mettere sotto scopa ed avere problemi con nessuno. Se dico certi particolari voi li scrivete a verbale e si viene a sapere in giro. È notorio che io sia una persona che non si piega, ma non voglio problemi con nessuno”. E Artale si sarebbe calato a pieno nel nuovo ruolo, tanto da dire a Martino Badalucco, pure lui arrestato oggi, riferendosi a un imprenditore riottoso alle nuove regole che “il torto non è che lo ha fatto a me, più che altro a voi o chi per voi”.
Artale nel 2006, aveva denunciato alcuni esattori del pizzo. E subito era diventato un simbolo dell’antimafia nella terra del superlatitante Matteo Messina Denaro. In realtà, l’imprenditore Vincenzo Artale – membro dell’associazione antiracket di Alcamo – era in affari con i boss, quelli che contavano veramente. E questa mattina, all’alba, è finito in manette assieme a loro, con l’accusa di tentata estorsione, aggravata dal favoreggiamento a Cosa nostra. Un’indagine dei carabinieri del comando provinciale di Trapani diretto dal colonnello Stefano Russo ha scoperto che Artale avrebbe avuto uno sponsor d’eccezione, il nuovo capo della famiglia mafiosa di Castellammare del Golfo, Mariano Saracino, anche lui un tempo imprenditore del settore del calcestruzzo, era già stato arrestato una prima volta nel 2000 perché ritenuto vicino a Cosa nostra. Con Artale e Saracino sono state arrestate altre tre persone. Si tratta di Vito Turriciano, Vito e Martino Badalucco, padre e figlio.
“E’ una storia emblematica, questa – dice il procuratore aggiunto Teresa Principato, impegnata nelle indagini per la ricerca del superlatitante della provincia di Trapani, Matteo Messina Denaro – ancora una volta le intercettazioni hanno svelato che l’antimafia di maniera può diventare uno schermo perfetto per mascherare scalate imprenditoriali all’ombra della mafia”. Così, aveva fatto Enzo Artale, un piccolo padroncino di Alcamo, proprietario di una betoniera che all’improvviso diventa il ras del cemento nella provincia di Trapani.
E’ l’ennesimo simbolo dell’antimafia che finisce nel ciclone di un’inchiesta giudiziaria. Artale aveva denunciato per davvero delle richieste di pizzo, ma gli autori erano dei piccoli mafiosi. Quale migliore occasione per accreditarsi come imprenditore coraggio, non perdeva occasione per ribadire il suo credo di sincero antimafioso durante convegni e manifestazioni. Nel maggio scorso, era stato eletto nel collegio dei probiviri dell’associazione antiracket di Alcamo. E intanto continuava a sviluppare affari con i mafiosi.
L’indagine, condotta dalla Compagnia di Alcamo e dal nucleo Investigativo di Trapani, è stata coordinata dai sostituti Francesco Grassi e Carlo Marzella: le intercettazioni hanno svelato la veloce carriera imprenditoriale di Artale nel settore del calcestruzzo, proprio grazie al sostegno dei boss di Castellammare del Golfo. Il suo cemento veniva imposto per lavori pubblici e privati, sarebbe stato utilizzato pure per le opere di ristrutturazione del viadotto Cavaseno di Alcamo, lungo la Palermo-Mazara del Vallo. Chi si rifiutava di utilizzare il cemento dei boss, subiva intimidazioni e minacce.
FONTE: REPUBBLICA.IT